«È raro che io cominci una melodia dall’inizio. Uno o due versi, presi a caso, mi restano impressi nella mente e presto mi danno il suono, il ritmo segreto, la chiave dell’opera.»
Francis Poulenc
Francis Poulenc (1899-1963) ci offre musiche votate a una limpidezza mozartiana, perché animate da una ricerca di essenzialità che si realizza sia nella leggerezza e nella stravaganza, sia nella malinconia e nell’introspezione. La sua prospettiva artistica è la sua personale rielaborazione dell’eredità musicale di Erik Satie (1866-1925), mentore ideale dei compositori del Gruppo dei Sei, di cui Poulenc fa parte (con Honegger, Milhaud, Tailleferre, Auric e Durey). Questo circolo musicale si riunisce a Parigi a partire dal primo dopoguerra e ha come manifesto programmatico “Le Coq et l’Arlequin” (1918) dell’amico letterato Jean Cocteau.
La musica di Satie ispira il Gruppo dei Sei per la sua resistenza a qualsiasi forma di retorica e per l’esaltazione della semplicità fino a usare toni provocatori e a sfiorare l’assurdo, con la convinzione che non c’è niente di più semplice di un’idea senza senso. L’eccentricità di Satie (strutture formali estrose o astruse, passaggi armonici curiosi o inauditi, texture e melodie di una linearità disarmante e sognante che negli anni Sessanta ha originato tendenze, diffuse ancora oggi, come la musica ambient e il minimalismo) si rispecchia nei titoli delle sue opere (definirli sopra le righe è poco), come “Gymnopédies”, “Morceaux en forme de poire”, “Pièces froides”, “Choses vues à droite et à gauche”, “Sonatine burocratique”.
Da questo orizzonte artistico, il quotidiano come materia e la semplicità come forma sono i primi ideali del Gruppo dei Sei, il cui credo estetico può essere sintetizzato da queste frasi tratte dal pamphlet di Cocteau: «La nostra musica dev’essere costruita a misura d’uomo» perché «la musica non è sempre gondola, cavallo da corsa, corda tesa; qualche volta è anche sedia». Il quotidiano e la semplicità costituiscono la “casa” in cui rifugiarsi per ritrovarsi appagati nella ricerca dell’infinito, come scienziati intenti a sondare verità. Non a caso il manifesto “Le Coq et l’Arlequin” si apre affermando che «L’arte è scienza fatta carne». Il sentimento di un infinito inconoscibile che si fa esperienza tangibile è la semplicità.
È ciò che risuona nelle poesie di Maurice Carême, poeta dell’infanzia in tutti i sensi, sia per i colori naïf del suo stile, sia per la sua predilezione per temi legati ai bambini. È impressionante pensare che più di duemilaottocento poesie di Carême sono state musicate da autori come Milhaud, Sauguet, Orff e Fabrice Boulanger. Dalla collaborazione tra Carême e Poulenc è nato il ciclo “La Courte Paille” (1960), il suo decimo – ed ultimo – ciclo di melodie per canto e pianoforte. Possiamo osservare che il termine ciclo è usato in senso etimologico, cioè di viaggio senza fine, in quanto resta sospeso nel fascino ineffabile dell’armonia in cui si dissolve: una settima di dominante senza risoluzione. Non si tratta di ciclo nel suo significato strutturale codificato nell’Ottocento (raccolta di brani con motivi ricorrenti e concezione formale unitaria): per Poulenc l’unitarietà è qualcosa di nascosto, inesplicabile e profondo, che dimora nell’ispirazione. Ciò che è comune ai sette brani è il suo stile personale e originale. Le sette brevi melodie infatti sono indipendenti, accostate l’una all’altra per contrasto (al contrario della continuità espressiva, che vede trascolorare ogni tonalità in quella successiva, dettata dal concetto di ciclo): momenti sospesi e sognanti si alternano a atmosfere bizzarre, frizzanti e scherzose.
Non è azzardato paragonare le anomalie formali di Satie, suggerite dalla sua originalità, al modo in cui Poulenc compone cicli, scegliendo di assicurare un equilibrio attraverso i contrasti, paradigmatici nella sua poetica. Anche il “modus titulandi” di Satie è assimilabile al caso de “La Courte Paille”, che letteralmente significa La cannuccia corta o Il bastoncino corto ma che in francese è parte integrante dell’espressione idiomatica “tirer à la courte paille” che significa tirare a sorte: chi ha pescato il bastoncino corto vince.
Dopo aver composto circa 130 melodie raccolte in nove cicli (oltre a opere sceniche, musica corale e composizioni strumentali), nel 1956 l’ispirazione legata al testo poetico sembra aver lasciato Poulenc, che scrive: «Le temps n’est plus aux mélodies (du moins pour moi). J’ai tiré (je crois) tout ce que je pouvais d’Eluard, Apollinaire, Max Jacob…». Nel 1958 l’opera “Dialogues des Carmélites” (Dialoghi delle carmelitane), su libretto originale tratto dalla pièce teatrale di Georges Bernanos, lascia avanti a sé un – apparente – vuoto nell’ispirazione musicale tout court, tanto che lo stesso anno Poulenc scrive «Good bye, my songs et sans rancune!». Ma sempre nel 1958 il desiderio di una nuova ispirazione inizia a rifiorire come desiderio di aspettare, di trovare il poeta giusto. Nel frattempo anche le poesie di Carême (inviategli dal poeta in parte nel 1956, in parte nel 1959) lo stavano aspettando, finché ad agosto 1960 Poulenc risponde: «Je suis en train de vous mettre en musique; tout arrive!».
Il “bastoncino fortunato” di Poulenc, a tre anni dalla sua morte, è l’intesa con i versi di Carême. La semplicità naïf delle parole ha liberato e alimentato la purezza dell’ispirazione musicale, facendo nascere ciò che il compositore chiamava, con un sentimento intermedio tra affetto e tenerezza, “mon petit cycle”. Le sue lettere agli amici sono entusiaste: «Je les aime beaucoup car elles sont très poétiques ou très folles. (…) Les mélodies alternent: une lente, une vive. (…) J’ai hâte de vous les montrer.» (a Stéphane Audel). I testi di “Le sommeil” (I), “Ba, be, bi, bo, bu” (IV) e “Le carafon” (VI) sono tratti da “La Cage aux grillons” (La gabbia dei grilli), mentre “Quelle aventure!” (II) , “La reine de cœur” (III), “Les anges musiciens” (V) e “Lune d’Avril” (VII) da “Le Voleur d’étincelles” (Il ladro di scintille).
Il cesello estremo della stesura melodica, del tessuto armonico e delle scelte ritmiche conferma “La Courte Paille” tra i piccoli capolavori di Poulenc. Le atmosfere sognanti dei movimenti lenti (I, III, V e VII) ricordano il sapore di concatenazioni armoniche tipiche di questo compositore e presenti ad esempio nella celebre Sonata per flauto e pianoforte (1956-57) e, ancora più intensamente, nella successiva Sonata per clarinetto e pianoforte (1962). La creatività di Poulenc ne “La Courte Paille” circola dall’invenzione melodica alle intuizioni armoniche e si espande al livello della scrittura pianistica, spesso sincopata ed essenziale, agile e lineare nella sua complessità, dimostrando come l’ideale di linearità scarna di Satie sia arricchita da un “di più” originale e ineffabile. Inutile ricordare che Poulenc non attribuisce mai al pianoforte un ruolo di mero accompagnamento vocale, perché anche la parte del pianoforte deve cantare e contemporaneamente fare da sostegno armonico alla voce e al suo stesso “canto”.
Se la musica di Satie è un paradosso di nonsense e saggezza, misticismo e cabarettismo, che si risolve in se stesso, la musica di Poulenc è un’antitesi tra esaltazione scherzosa e malinconia onirica, tra euforia stravagante e ricerca di senso, che si risolve nell’anima.
Caterina Barontini