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Mia Martini, Minuetto. Un’analisi appassionata

19/11/2023 18:02

Ilaria Barontini

Popular music, Storia della canzone italiana, Mia Martini, Giorgio Gaber, Franco Califano, Festivalbar,

Mia Martini, Minuetto. Un’analisi appassionata

A cinquant'anni dall'uscita, riascoltiamo Mia Martini in "Minuetto" (Baldan Bembo-Califano), dalla scrittura musicale e testuale potente e evocativa.

Con un cenno al coetaneo singolo Lo Shampoo di Giorgio Gaber

 

 

Non bisogna estinguer la passione

colla ragione, ma convertir la ragione in passione.

(Giacomo Leopardi, Zibaldone, 22 ottobre 1820)

 

 

Premessa

 

Da Dicitencello vuje (canzone napoletana del 1930, con musica di Rodolfo Falvo e testo di Enzo Fusco): “È ‘na passione cchiù forte ‘e ‘na catena…”

“Rinnegare una passione no…”, scrive Franco Califano in Minuetto, con cui dà voce a uno dei sentimenti femminili più tormentati della storia della canzone italiana. Come dargli torto? Se è davvero quello che vogliamo, se siamo così appassionati o appassionate di qualcosa o qualcuno è inutile provare a estirpare ciò che ci esalta, ci realizza, ci fa crescere, vivere e ci fa anche deprimere e soffrire (che poi sono tutti effetti riconducibili alla parola “passione”, che deriva dal greco antico, in cui la radice “path-”, la stessa di “pàthos”, riassume tutto ciò che si può provare, sia di positivo che di negativo e la troviamo anche in parole come simpatia, empatia, patire, patema, compassione, pazienza, paziente…). Ed è per questo che, se la passione sorregge lo studio, esso sarà proficuo, ricco, gratificante e accompagnerà tutta l’esistenza. Resistente alla fatica, agli insuccessi (non esistono successi o insuccessi, ma tappe di un viaggio, personale, irripetibile), alle delusioni (svaniscono se ci liberiamo dalla schiavitù delle aspettative), alle difficoltà (stimolano a cercare soluzioni). C’è già nella passione il mettere in conto le soddisfazioni e le frustrazioni. 

Se c’è la passione siamo a prova di bomba. Vivendo la passione per quello che facciamo non ci può scalfire niente. Se ci scalfisce, quella non era una nostra vera passione. Non era una “catena […] che scioglie il sangue dint’ ‘e ‘vvene” (Lucio Dalla, Caruso).

 

 

Sound e temi vintage ed evergreen

 

Il 1973 è la data di uscita di tre brani inimitabili. Viene pubblicato cinquant’anni fa (il 10 maggio) il 45 giri Lo shampoo/ La libertà di Giorgio Gaber (Carosello). Entrambe le canzoni sono scritte da Gaber e Sandro Luporini e danno voce a due esigenze umane: lavar via ciò che nella vita ci opprime la prima, chiarire a se stessi e al mondo cosa sia “libertà”, risolvendo il conflitto individualismo/ condivisione la seconda. Nell’impossibilità di riconquistare una purezza vera e propria, ne Lo shampoo si ripiega ironicamente nella piccola felicità data da questo rituale, con una musica e un’interpretazione geniali.

Il secondo brano contiene invece la consolazione di un’epifania. Si parte da una Strofa impetuosa come il bisogno di essere liberi in modo selvaggio, svincolato da obblighi e convenzioni sociali. Per fermarsi e accorgersi che non era così appagante. La riflessione porta a concludere che senza una dimensione sociale non possiamo essere liberi.

Da un brano inconsueto come Lo shampoo, quasi uno sketch (sembra suggerire: se fai così starai bene, proprio come me…), che nell’argomento apparentemente insignificante cela tutto un mondo, quello occidentale di fine Novecento, di cui siamo figli, e una condizione universale di disagio, al tema grandioso della libertà, espresso a tratti con accenti che fanno sorridere, e anche con un’arguta critica alla società occidentale. L’illuminazione con cui termina il Ritornello ha il sapore di una religiosità laica. Gli autori esprimono l’ironia e l’istanza umoristica, eccentrica, di deformare, di decontestualizzare, già collocando Lo shampoo nel lato A e La libertà nel lato B.

 

Quest’anno compie mezzo secolo anche la memorabile Minuetto, uscita il 10 maggio 1973, esattamente come Lo shampoo.

Lo storico programma Rai Senza rete (1973) offre una favolosa interpretazione live della canzone; può essere particolarmente emozionante e vivamente consigliabile (per non dire irrinunciabile) il suo (ri)ascolto e la sua visione. Si tratta di un live stratosferico con un’appassionata versione in cui l’orchestra, il pianoforte, il grande Pino Calvi, risultano particolarmente incisivi e ben fusi tra di loro e con la voce; l’interprete compie il miracolo di un live ancora più bello, coinvolgente, espressivo, impetuoso, esclamativo dell’esecuzione registrata in studio. 

Oltre all’interpretazione a Senza rete, è assolutamente consigliabile l’ascolto del disco uscito cinquant’anni fa. Anche nella versione in studio emoziona la qualità di espressione, raggiunta con l’interazione di interpretazione vocale e strumentale, arrangiamento e scrittura musicale e testuale. 

Minuetto (Dischi Ricordi) ha musica di Dario Baldan Bembo, testo di Franco Califano (come già accennato) e arrangiamento di Natale Massara. Vinse il X Festivalbar, vendette più di cinquantamila copie, ottenendo il Disco di Platino e fu il maggior successo dell’estate 1973. Risulterà anche il disco più venduto e popolare dell’intera carriera dell’artista.

La Martini lo definì “classicheggiante” e dal “finale suggestivo”. Come darle torto: è particolarmente emozionante e spaesante, nel finale, quel riprendere il tema della Strofa con andamento dilatato, quasi a descrivere la massima disillusione, una percezione nuova del tempo, che scorre lento e inesorabile, nella rassegnazione di chi non combatte nemmeno più, o nel distacco con cui la protagonista arriva a vedere se stessa, a comprendere tutto, e a potersi ribellare ancor meno di quando capiva solo a sprazzi. 

La strumentazione è ricca e adatta a enfatizzare le qualità timbriche ed espressive della cantante, le parole e la musica; è da evidenziare lo scavo psicologico intelligente e sensibile del testo e il suo creativo e vincente adattarsi alla melodia. Nell’accompagnamento, si riconosce facilmente il basso albertino[1], coerente con la melodia triadica del Ritornello che inizia con “… a casa mia…”, e esploderà con “… sono tua…” (melodia che, nel primo proporsi nel registro più acuto, diventa un “Na, na, na…” – il canto di chi rimane momentaneamente senza parole). La canzone è vicina al bagaglio sonoro della musica colta anche per le progressioni, gli incalzando, i rallentando e la chiarezza formale (Strofa - Ritornello, sempre ben definiti), per la parola minuetto, danza e metafora di cosa succede emotivamente a lei, e anche termine capace di evocare tutto un ampio, plurisecolare mondo musicale (forse per significare: questa dinamica è codificata e ineluttabile e segue un copione seguito da tempo e che si ripeterà in futuro). Il basso albertino, che ascoltiamo fin dall’inizio, è affidato, secondo la prassi più consolidata, al pianoforte. Questo garantisce un’identità di chiara derivazione classica, che dà creativamente coerenza con il campo musicale colto da cui il testo trae l’idea del minuetto (che però diviene una metafora) e con l’impiego di una musica dal percorso armonico e dai movimenti melodici che seguono diligentemente precise regole tonali. Da notare come la derivazione classica sembri essere impiegata con fini espressivi: nel movimento tipico di tale accompagnamento[2] c’è un disegno di salita e ridiscesa continue, quasi a rappresentare ciò che è descritto dal testo. Nel brano, anche il canto, come si accennava, è triadico; la melodia del Ritornello si apre con triadi discendenti ripetute tre volte, inframezzate da coppie note dal disegno altalenante, quasi a riprendere il saliscendi del basso albertino. Il testo parla di esaltazione e sconforto: la musica discende, evocando l’effetto rovinoso che lui provoca in lei; le triadi sono però in progressione ascendente. Si potrebbe commentare con Francesco Petrarca: “[…] sol d’una chiara fonte viva/ Move ‘l dolce, e l’amaro ond’io mi pasco” (Le Rime, Sonetto CCXXI).

Nel “Na, na, na…” la voce è salita di un’ottava, rispetto all’inizio del Ritornello, ripresentato con una velocità maggiore, e ci potremmo aspettare un testo opposto al drammatico “E cresce sempre più/ la solitudine/ nei grandi vuoti che mi lasci tu”, che risulta particolarmente emozionante. In questo momento di grande espansione sonora, la melodia triadica viene lasciata per tre volte in sospeso dalla voce (“…/ E cresce sempre più/ la solitudine/ nei grandi vuoti che mi lasci tu”) e l’arrangiamento, tra il fortissimo di tutta l’orchestra, fa terminare il disegno in un registro ancor più acuto, da uno strumento estremo, come tessitura e come capacità di essere penetrante: l’ottavino. Questo sembra descrivere musicalmente il delirio, l’essere mentalmente frastornati da pensieri, ossessioni e psicologicamente sconfitti dall’amplificarsi della propria debolezza. “E cresce sempre più/ la solitudine”: vista la pausa nel canto si crea uno stacco e, di fatto, un enjambement, che evidenzia le parole “la solitudine”, isolandole dal resto.[3] Si crea anche una quartina di versi irregolari (un settenario tronco, un senario sdrucciolo e un endecasillabo tronco – anche se in musica risulta piano per effetto della vocalizzazione della “u” della parola “tu”), che rendono l’idea di quanto sia destabilizzata la donna per l’uomo a cui si rivolge con la seconda persona, in una posizione musicale e testuale più enfatica possibile. Ad aggiungere irregolarità, le vocalizzazioni in finale di parola (oltre a “tu”, anche l’ultima sillaba di “solitudine” viene vocalizzata, quasi a dirci: “tu” e “la solitudine”, per lei, sono strettamente collegati) e il dilatare ritmicamente il canto in corrispondenza di “…cresce sempre più… la solitudine”, analogamente alla condizione descritta.

Anche nella seconda Strofa, al terzo verso (esattamente a metà della pentastica[4]), la parola finale “te” viene vocalizzata in modo discendente, procedimento che nel Ritornello era stato adottato per “tu” e “solitudine”; queste note in più di certo non sono state composte dall’autore: è l’interprete che ha scelto quasi istintivamente come abbellire la melodia, oltre a variare leggermente le durate dei suoni, che risultano così spesso tutt’altro che metronomici, pur rispettando l’ossatura ritmica del brano (quello che si dice stare sul tempo).

L’ottavino tornerà a eseguire la melodia triadica del Ritornello in corrispondenza del penultimo verso cantato che riprende il motivo della Strofa: “Minuetto suona per noi/ la mia mente non si ferma mai…”, poi tace ed emerge il coro e il corno introduce l’ultimo verso “Pensieri vanno e vengono/ la vita è così…”, con la “i” finale vocalizzata, stavolta in modo ascendente, a collegarsi all’ultimo “Na, na, na…”, in cui l’ottavino suona di nuovo insieme al canto il motivo del Ritornello (e glielo completa come aveva fatto in precedenza), mentre il coro continua a vocalizzare la melodia della Strofa. Questa scelta musicale si direbbe un simbolo della sintesi, attuata dalla consapevolezza, che vede contemporaneamente due volti della protagonista: l’io iniziale (non a caso nella parte più veloce, tumultuosa, si parlava di ingenuità, che ora sembra persa, in favore della disillusione) e quello attuale (ora si parla di “una gioventù che ormai non ho più”). Da quando siamo a velocità ridotta, è totalmente mutato l’arrangiamento. Prima del cambio di tempo, ciò che suggeriva esaltazione conteneva anche il dramma; ora ciò che comunica serenità e distensione rappresenta la conseguenza di una scelta che si è rivelata controproducente. Non resta che prenderne atto. Nel pieno sonoro del Tutti, emerge ancora l’ottavino, uno strumento acuto, quasi inumano, a rappresentare, nel nuovo contesto, il suono deformato di una passione ormai sbiadita, sempre conflittuale ma non più esaltante, ciclico come il basso albertino enunciato all’inizio della canzone dal pianoforte eppure ad esso opposto, come registro, timbro e dinamica. Il pianoforte che da solo aveva esordito con i suoi tranquilli giri di accompagnamento, come ad affermare inoffensivamente la tonalità e a dare le prime note al canto, si era dimostrato contenuto nelle sonorità e delicato come strumento (parola usata al plurale nel testo con forte efficacia metaforica). A questo strumento, che eseguiva (“da maestro esperto”…) il modulo di accompagnamento tra i più adatti a suggerire tranquillità e distensione, ripensiamo ora come ad un tempo in cui questi sviluppi erano insospettabili.

Abbiamo osservato come nel “Na, na, na…” possa essere visto un restare senza parole. Esso rappresenta anche il motivo che “suona per noi”: il “minuetto” che dà il titolo al brano. Un testo originale e profondo, tra immediatezza e riferimenti colti fatti propri, reinventati, affida proprio a una sillaba senza senso il suo culmine musicale, emotivo e semantico. Sono ben altro che poche sillabe a completare un testo che langue, o a dare un che di giocoso, cosa frequente in molti repertori. Questo “na” ripetuto, per intensità espressiva e spaesamento emozionante e visionario, può evocare un raffronto con la versione di Gabriella Ferri di Dove sta Zazà? (nell’album …E se fumarono Zazà, 1971; prima incisione: 1944; la musica è di Giuseppe Cioffi, il testo di Raffaele Cutolo). In Zazà il gioco di ripetere la sillaba “za” diventa solitario, disorientato, drammatico e la grandezza dell’interpretazione della Ferri sta proprio nell’essere così credibile ed emozionante pur avendo ribaltato il senso del brano, nato come festoso, corale, scherzoso e scanzonato. 

Nell’interpretazione di Mia Martini si riconosce la componente soul, assimilata incredibilmente dalla cantante e mischiata al pop-rock e al folk con un istinto, una genialità musicali raffinati e una vocalità dall’estensione, intonazione, potenza e bellezza timbrica mostruose.

Il testo, nel finale del brano, sembra concentrarsi sul minuetto come brano musicale (“minuetto, suona per noi”), che comunque deriva da un’antica danza: l’immagine simboleggia un tira e molla pseudoaffettivo, dovuto sia al comportamento di lui, completamente libero di andarsene e tornare quando vuole, senza nessun amore, sia a quello di lei, costantemente combattuta tra volontà di dire no e trovarsi a dire sì, per il non voler rinnegare una “passione”. 

“Troppo cara la felicità per la mia ingenuità,/ continuo ad aspettarti nelle sere per elemosinare amore”: il secondo verso si sporge fino a toccare il Ritornello “Sono sempre tua, quando vuoi…” come mai era successo alla fine della Strofa. Lei è tutta protesa verso lui, il suo carnefice e guaritore. (“Sono” può essere già considerato l’inizio del secondo Ritornello, ma musicalmente è un levare che lo introduce, esattamente come, nel primo Ritornello, c’è “E vieni a…”: una musica ben segmentabile, dunque, ma che, con questo testo, può essere interpretata come simbolo di una condizione della donna, che si sente continuamente legata a lui, addirittura sempre sua.)

La trascinante orchestrazione, l’orecchiabilità della melodia e il succedersi rassicurante degli accordi stridono con tutto quello che è presente nel testo. La voce è una vera forza della natura, a dispetto della condizione di debolezza che esprime: “Troppe volte vorrei dirti no/ e poi ti vedo e tanta forza non ce l’ho” e, più avanti, “…non posso dirti sempre sì e sentirmi piccola così/ tutte le volte che mi trovo qui di fronte a te…”.[5] Voce e strumenti esaltano dunque il contrasto che musica e parole creano. 

“E la vita sta passando su noi,/ di orizzonti non ne vedo mai,/ ne approfitta il tempo e ruba come hai fatto tu/ il resto di una gioventù che ormai non ho più…”: le considerazioni sulla caducità del tempo, della vita, di tutte le cose, permettono di allargare il campo d’attenzione. Finalmente non si vede solo quest’uomo affascinante, che le ha rubato la spensieratezza e l’ottimismo. Ma è lì che la desolazione si esprime appieno e si sposa con la rassegnazione. L’andamento è ora più calmo, ma tutt’altro che consolatorio. 

Il verso “E la vita sta passando su noi”, nell’arrangiamento per orchestra di Senza rete, è seguito da una carezza magica e inquietante per la sua rapidità e delicatezza quasi impercettibili: un glissando ascendente dell’arpa. Esso raffigura con efficacia lo scorrere del tempo che, ripercorso a ritroso, sembra a una distanza brevissima da noi.

“Ora ammetto che la colpa forse è solo mia/ avrei dovuto perderti, invece ti ho cercato…”: il concetto di “colpa” fa pensare a qualcosa di mai davvero superato dal personaggio del brano, ma il messaggio più importante è che ogni scelta ha un prezzo, e la fotografia impietosamente efficace si staglia davanti all’ascoltatore. Incredibile come Califano abbia saputo centrare poeticamente il cuore di questioni così complesse in frasi come “un’attesa pari a un’agonia”, “pensieri vanno e vengono”, “la mia mente non si ferma mai”. Il dramma si fa particolarmente straziante in “sempre ubriaca di malinconia” e in “io non so l’amore vero che sorriso ha”…

 

 

Conclusioni

 

Oltre alla bellezza e alla intensità della interpretazione di Mia Martini, il fatto stesso che fosse Mia il suo nome d’arte rende particolarmente azzeccato il testo non solo con la musica ma anche con la cantante. Mia risulta snaturata dalla sua passione al punto di non essere più “Mia” (se stessa) ma “tua”, in posizione enfatica e ribadita (“sono mille volte tua”). La genialità del testo descrive una possibile, frequente condizione femminile ma anche una più generale condizione umana come dimostra la versione maschile cantata da Califano stesso. Meno usuale, o meno frequentemente verificabile, si potrebbe obiettare, per questioni culturali e tradizionali. Ma altrettanto affascinante: perfino un uomo che mette al primo posto la sua libertà può essere triste di non sapere l’amore vero che sorriso ha.

Può una canzone irripetibile essere oggetto di analisi psicologica? Sì, può essere tutto. E allora è chiaro che Minuetto non descrive pienamente una passione di una donna per un uomo, ma la passione di una donna per la propria stessa condizione di ansia. Oltre che per l’efficacia del sound vintage e evergreen al tempo stesso, non si può che restare ammirati per l’interpretazione della Martini e per le parole trovate da Franco Califano, parole di cui si crederebbe potessero essere capaci solo le donne, in una autoanalisi. Quale donna non si è trovata, almeno una volta nella vita, in una situazione (vissuta o subito scartata, o magari solo intravista, pensata) simile a quella del brano? E quello che ha saputo scrivere Califano tradisce, nei confronti dell’animo femminile, una comprensione profonda davanti a cui le “mani tue strumento su di me/ che dirigi da maestro esperto quale sei” impallidiscono e diventano una quisquilia, un’abilità che tutti possono apprendere facilmente. E allora, come a tutti gli appassionati di musica e in particolare della canzone, viene da ricevere dal brano un insegnamento, tanto più prezioso quanto si tratta di un brano che non vuole affatto insegnare, ma raccontare. In questo racconto lei mostra come si trova male a seguito del suo fermo “rinnegare una passione no”: ormai è “sempre ubriaca di malinconia” e torna col pensiero a un passato che se potesse rivivrebbe indirizzandosi su scelte opposte a quelle realmente vissute. La canzone descrive molto più che una relazione sbilanciata, fondata su una dipendenza e su una condivisione che sembra realizzarsi ma è illusoria; descrive una persona che non ha la forza (“tanta forza non ce l’ho”) di far valere le sue priorità. Il suo essere sentimentale si afferma con la sofferenza, con uno sterile lamento sul comportamento dell’uomo, che non le dimostra nessun affetto. Un mondo in cui l’individualismo è diffuso può far sentire come invalidante l’essere sentimentale. Tutti dovrebbero invece affermare orgogliosamente loro stessi per quello che sono e non per quello che altri vorrebbero, condizione che non solo non permette di divertirsi, ma che può anche avvelenare la vita. Ecco il racconto, la testimonianza del brano, coi suoi momenti esaltanti solo a metà, e per l’altra metà disperanti, per una donna che non ha avuto la forza di dimostrarsi orgogliosamente intera (corpo, mente, sentimenti), come realmente è, davanti a un uomo che vive in modo positivo la situazione perché è orgogliosamente disinteressato del suo amore. Testimoni, non maestri, come scrive Alessandro D’Avenia[6]. E la sua è un’indicazione sintetica e meravigliosa, irrinunciabile e vera. 

 

 

Ilaria Barontini

 


 

[1] Tipica formula di accompagnamento del periodo classico, il basso albertino consiste in un accordo arpeggiato, con le note della triade eseguite ciclicamente, generalmente secondo quest’ordine: tonica, quinta, terza, quinta. Il nome deriva da Domenico Alberti, che lo ha utilizzato, anche se non per primo. Questo modulo di accompagnamento è molto praticato nel classicismo (basti pensare all’inizio del primo movimento, Allegro, dalla Sonata n. 16 in Do maggiore K 545 di Mozart), ma talvolta anche nel romanticismo e in epoche successive, specie in generi più “leggeri” (il brano Scale e Arpeggi dal film Gli Aristogatti ha la parte in cui i gatti cantano e suonano il pianoforte, in una celebre, divertente “lezione di musica”, accompagnata quasi interamente da un basso albertino).

 

[2] Cfr. nota 1.

 

[3] La divisione del testo adottata tiene conto della frase musicale, completata da interventi strumentali.

 

[4] Pentastica: strofa di cinque versi.

 

[5] Grazie all’interpretazione di Mia Martini, la protagonista diventa quasi la traduzione in una musica di tutt’altra epoca e genere di una delle eroine pucciniane, come Manon, che canta Sola… perduta… abbandonata; anche lei ha deciso di seguire la sua passione, e l’ha seguita fino alla fine, ma pochi istanti prima di morire la ascoltiamo spingersi all’acuto, con fraseggi ampi e crescendo impegnativi. Ottant’anni prima (Manon Lescaut di Puccini va in scena nel 1893). Manon sta per morire e la ragazza della canzone parla tra sé, forse pensa, o scrive un diario, magari a tratti grida da sola la sua disperazione, oppure prova a dire alcuni dei suoi pensieri a lui, ma sembrerebbe più convincente pensare a un uso ideale della seconda persona singolare (non è così importante; del resto è espresso benissimo come si sente lei quando ha lui davanti, e non viene da credere che il loro rapporto sia tale da indurla ad aprirgli tutto il suo animo; se in parte l’ha fatto, se ne è pentita e ha avuto l’impressione di parlare al vento). Quindi la voce in entrambi i brani è tutt’altro che realistica: è metaforica, e il suo corpo timbrico (nella lirica, impostato e vibrante) esprime l’intensità di uno stato d’animo, la complessità di una condizione psico-fisica, in un monologo interiore. Il volume e la tessitura alti in queste imponenti voci femminili sono dunque prima di tutto strumenti di grande forza espressiva per comunicare passione e drammaticità. L’opera termina con la morte della protagonista, la canzone con la morte della speranza.

 

[6] Alessandro D’Avenia, L’arte di essere fragili, Mondadori, Milano 2016.

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Il direttore per antonomasia: Arturo Toscanini
Tra Otto e Novecento, Direzione d'orchestra, Arturo Toscanini,

Il direttore per antonomasia: Arturo Toscanini

Caterina Barontini

16/01/2021 22:10

Direttore d'orchestra? Per essere al servizio della partitura. Alcune note su questa figura professionale, ricordando Toscanini nell'anniversario della morte.

Preludio programmatico

di Caterina Barontini – 22/11/2020

Diamo la parola alla musica! In tutti i sensi: vogliamo che questo blog sia uno spazio di ascolto musicale e allo stesso tempo di esplorazione guidata dentro la musica, per aiutare chiunque passi di qua a captare i messaggi nascosti "fra i righi" del pentagramma. Perché questo spazio? Perché la musica ha bisogno di parole, oggi più che mai, per poterci parlare con tutta la sua forza?