In un mondo senza internet, oltre a dischi e cassette, potevo ascoltare tutta la musica trasmessa in radio, TV e filodiffusione. Oggi sembrerebbe poco, ma non lo era: le radio in Italia negli anni Ottanta, contro tutti i pronostici, andavano ancora benissimo, la filodiffusione aveva due canali: uno di musica leggera e uno di musica classica... per la gioia di noi ragazzini italiani c’era Videomusic ed anche le TV di stato e private, che facevano a gara nei programmi “giovanili” di canzoni. Inoltre i palinsesti televisivi del tempo comprendevano concerti di molti generi, in orari più accessibili che in tempi successivi, e si faceva tanta musica anche nei cosiddetti “varietà” (Due di tutto, varietà in onda tra 1982 e 1983 su Rai 2, allora chiamata Rete Due, ospitò Severino Gazzelloni! L’indimenticabile, carismatico flautista si prestava spesso a comparire in luoghi “poco consoni”, secondo gli “intenditori” dell’epoca, a un esponente della musica cosiddetta “seria”…). Oggi siamo messi senz’altro meglio, con le incredibili e costanti possibilità di ascolto che abbiamo…
Ma “quanto pubblico” c’è per la musica? In quanti ascoltiamo? La frase “tanto lo posso ascoltare quando voglio” che in tempi più recenti abbiamo detto o pensato tutti è molto insidiosa! Sembrerà un paradosso, ma la facile accessibilità a un enorme patrimonio di ascolti può ridurre la voglia di ascoltare. D’altronde, penso che il verbo “ascoltare” rientri in quella categoria di verbi (come “leggere”, “sognare” e “amare”) che secondo Daniel Pennac (in Come un romanzo) “non sopportano l’imperativo”.
Adesso non tradiva minimamente le aspettative, anzi continuo a ritenerlo il disco che ha l’esecuzione vocale di una bellezza inarrivabile, accompagnata da arrangiamenti inconsueti per il tempo, eseguiti splendidamente.
La freddezza dei suoni sintetici esalta per contrasto il calore di una voce capace di espressività, duttilità e potenza interpretativa inaudite.
Continuo a pensare che l’album precorra i tempi per la capacità di unire e reinventare elementi propri di contesti musicali culturalmente lontani, tanto da esser difficilmente classificabile, che abbia un sound nuovo, che verrà poi preso a modello, che sia un prisma sorprendente di brani e che oggettivamente comprenda diversi capolavori. Inutile dire che nell’arco di pochi giorni dopo Adesso mi precipitai a comprare tutto ciò che a Livorno, la mia città, si trovava di Mango, ossia le precedenti incisioni Australia (’85) e Odissea (’86), di pari bellezza, magia e carica innovativa.
I tre album hanno ciascuno una propria (molteplice) personalità, ma possono secondo me essere accostati; anzi, trovo che la storia discografica di Mango, soprattutto nei primi periodi, vada per “trilogie”: i primi tre LP ottimi ma non famosi, in cui il cantautore si presentava ancora come Pino Mango (La mia ragazza è un gran caldo, ’76, Arlecchino, ’79, ed È pericoloso sporgersi, ’82), i tre dischi della “rivelazione” al pubblico (Australia, Odissea e Adesso), i successivi tre che definirei del “periodo d’oro”: Inseguendo l’aquila (’88), Sirtaki (’90) e Come l’acqua (’92). Infatti le brevi osservazioni sul disco Adesso di cui sopra, possono secondo me essere estese anche a quelle altre due autentiche perle che sono i dischi Australia e Odissea.
Oltre che ad Australia, Alberto Salerno ha dedicato qualche tempo fa una puntata delle sue Storie di musica anche al disco Adesso (che fu anche il primo album di Mango a spopolare veramente, ad uscire contemporaneamente nei tre formati: LP, musicassetta e CD, e ad essere poco tempo dopo anche distribuito in Spagna con il titolo Ahora, che comprende una cospicua parte dei brani in traduzione spagnola) ed è un altro scenario, che si offre alla conoscenza di chi ama i brani contenuti nell’incisione o di chi si vuole ora avvicinare a repertori che hanno mantenuto intatta la loro bellezza. I tre album hanno avuto l’apporto di autori e produttori, come Alberto Salerno e Mogol (e Lucio Dalla, autore del testo di Bella d’estate), e di musicisti, tra cui Mauro Paoluzzi, Aldo Banfi, Brian Auger (in Odissea suonò l’organo Hammond nel brano Love is just a melody), Laura Valente, Lele Melotti, Mauro Malavasi, del fotografo Guido Harari. Graziano Accinni e Rocco Petruzzi suonarono nel disco Adesso e avrebbero collaborato a lungo con Pino Mango (Petruzzi lo accompagnerà nell’arco di tutta la sua carriera successiva). Non posso citare tutti, sono accreditati sui dischi e si trovano anche su internet: sono tutte figure che hanno contribuito a valorizzare il talento smisurato del cantautore e che a fine anni Ottanta percepivo come “mitologiche” (di alcuni avevo trovato e ritagliato da un giornale una foto, altri erano solo una scritta sul retro della copertina del disco). Oggi possiamo conoscere queste personalità anche nella loro umanità grazie ai racconti di Alberto Salerno, a internet e ai social.
Tornando a Dal cuore in poi (di Mango, Alberto Salerno e Armando Mango), da cui fui profondamente colpita da piccola, mi rendo conto oggi che non può non colpire (Mango mi sembrò un grande cantante fin dalla prima volta che ebbi modo di sentirlo, nel febbraio 1986 a Sanremo con Lei verrà, ben trentacinque anni fa, ma è dal Sanremo ’87 che compresi meglio la sua incredibile bravura, e mi dava fastidio non saperla argomentare). È davvero qualcosa che non si era mai sentito né a Sanremo né altrove; presenta dei caratteri improvvisativi, un ritmo fluttuante, che nella parte iniziale (in cui la melodia ha metro irregolare) sembra esulare dalla consueta scansione “a battuta”, la melodia oscilla tra tonalità e modalità; le sezioni sono riconoscibili e ritagliabili, ma anche formalmente è ambiguo ed innovativo, per il modo particolarissimo che hanno le sezioni e i motivi di interrompersi o di ripetersi, con una linea melodica e un percorso armonico poco prevedibili e spesso lasciati sospesi. Tutti questi elementi rendono il brano poco incasellabile in un genere.
La condizione di indeterminatezza del brano, adatta a “dipingere” gli stati emotivi, viene amplificata dal modo di cantare di Mango, capace di gamme sonore ed espressive ricchissime e fuori dagli schemi e con il suo “stare sul tempo”, come direbbero i jazzisti. L’incertezza viene sottolineata anche dall’arrangiamento, che (sia nella versione del singolo che in quella dell’album) oscilla tra momenti di rarefazione e momenti di ritmica regolare fortemente scandita, garantendo l’effetto sorpresa.
Il testo aderisce perfettamente alla musica e ne amplifica l’indeterminatezza con significati vaghi ed evocativi, con espressioni inusuali, con interiezioni (“Ahi”, “Ah”), con immagini metaforiche, presenti in tutto il brano (“L’uragano che troverai/ sei proprio tu”… “Rimani qui/ leggera e limpida così”… “Polvere di sole cadrai/ vicino a me”… “Il fuoco/ scioglierà/ questo inverno tra di noi/ coi colori che tu non hai”). In corrispondenza delle parole “Il fuoco” inizia la sezione che si apre alla tonalità maggiore. In questa sezione, l’unico verso con significato chiaro ed esplicito è l’ultimo: “un amore per te sarei”. Ecco: l’unica certezza è espressa col condizionale! Lo trovo geniale. E, nella ripetizione finale di tale verso, viene addirittura omesso il verbo “sarei” e sostituito da un inatteso e prorompente glissando ascendente; il glissando termina con il culmine della melodia (in cui converge il multitracking di Mango) e la voce (sia nella versione sanremese che in quella del singolo) indugia su tale nota-perno e la afferma come un luminoso punto esclamativo, ricco di tutto il senso e il significato che era stato evocato dalle parole.
Innovatore come interprete: non assomiglia a nessuno e al tempo stesso reinterpreta il rock, il british pop, la musica black e folk di varia provenienza… Aggiungerei che la sua vocalità si dimostra anche vicina a sperimentazioni tipiche della musica contemporanea e addirittura anche ad alcuni elementi presenti nella musica antica, ma è solo per analizzare, perché il vero miracolo è la naturalezza con cui compie questo superamento dei generi (in varie interviste si è raccontato come appassionato ascoltatore, e un altro miracolo è che nel suo modo di cantare possiamo trovare anche quello che probabilmente non ha ascoltato mai).
Spesso a Mango, a ragione, si associa il termine “raffinatezza”, aggiungerei “spontaneità”: la sua è una ricchezza incredibilmente spontanea e naturale. Innovatore dal punto di vista formale: fin dai primi dischi si nota nelle sue musiche l'esigenza di superare la rigidità di schemi ormai consolidati. Negli ultimi periodi dimostra spiccata originalità e profonda sensibilità anche nella scrittura dei testi.
Innovatore perché nella canzone italiana chi ha particolari qualità vocali non necessariamente le affianca ad una grande attenzione per la ritmica, che risulta anch’essa, nei suoi brani e nelle sue interpretazioni, raffinata, varia e padroneggiata quasi istintivamente. Lo stesso vale per la sua consapevolezza armonica, che gli offre spunti creativi e improvvisativi di grande originalità, eseguiti con la sua voce, caratterizzata da un’estensione incredibile e da una ricchezza timbrica smisurata e versatile.
La prima consolazione per la sua perdita è quello che ci ha lasciato, opere che “non moriranno mai” (per dirla con una sua canzone). La seconda è l’orgoglio personale di averne riconosciuto il valore da ragazzina. Non avrei certo scritto questo articolo, avrei detto semplicemente frasi del tipo: “È il numero uno!”, da fanatica com’ero di giudizi e graduatorie, due cose che ora ritengo assurde… anche se continuo a pensare che il numero uno sia Pino Mango.
Ilaria Barontini