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Sigle di anime e altre musiche: ricordi di chi è (stato) bambino sul serio

15/11/2022 20:02

Ilaria Barontini

Popular music, Sigle dei cartoni animati,

Sigle di anime e altre musiche: ricordi di chi è (stato) bambino sul serio

Tra la seconda parte degli anni '70 e la metà degli '80 ce li chiamavano ancora "cartoni animati". Ma c'era di mezzo il computer (in modi d'epoca! Olt

Tra la seconda parte degli anni '70 e la metà degli '80 ce li chiamavano ancora "cartoni animati". Ma c'era di mezzo il computer (in modi d'epoca! Oltretutto in Italia dal Giappone arrivavano in ritardo) e una certa fissità. Poi c'era il fraintendimento tutto italiano "i cartoni animati sono per bambini". Una volta cresciuti, ci hanno rivelato che si chiamavano "anime" (parenti dei "manga") e che erano destinati ai ragazzi grandi (adolescenti, almeno) e agli adulti. Personalmente (ed è stato così per generazioni!) li ho visti quotidianamente fin da piccolissima. Ci hanno sottoposto a tutto; poi ci hanno chiamato "generazione x". Comunque sono stati un po' come fiabe: non potevano far danni! Lo capì subito anche Gianni Rodari, che con un articolo intervenne, nel dibattito infuocatosi a fine anni '70, a favore di Goldrake e degli altri robot («Dalla parte di Goldrake», Rinascita, 17 ottobre 1980). Finalmente la parte più attiva e pensante della cultura-ambiente considerava noi bambini come persone capaci della serietà degli adulti (…o anche più degli adulti).

Ciò si riflette nel pensiero espresso da Bruno Munari (1): «C'è sempre qualche vecchia signora che affronta i bambini facendo delle smorfie da far paura e dicendo delle stupidaggini con un linguaggio informale pieno di ciccì e di coccò e di piciupaciù. Di solito i bambini guardano con molta severità queste persone che sono invecchiate invano; non capiscono cosa vogliono e tornano ai loro giochi, giochi semplici e molto seri» (Bruno Munari, Arte come mestiere, 1966). Non posso che essergli riconoscente: ha contribuito a rendere l'infanzia di molte generazioni, tra cui la mia, libera da mille stereotipi, oltre che a dare credito e legittimità a una mia personale inclinazione per cui tutto, anche il divertimento, è sempre stato una cosa "molto seria".

 

Tornando al momento in cui arrivò nella televisione italiana un numero sempre maggiore di anime, in particolare incentrati su robot e battaglie nello spazio (metafora dell'eterna umana lotta tra il bene e il male), aveva ragione Rodari a ritenerlo un fenomeno affatto preoccupante: eravamo in un tempo in cui il gusto del racconto ci veniva insegnato da parenti, persone più grandi di noi, libri, scuola, fumetti, tv stessa, radio e cinema. Se ad esso si affiancava il luccicante televisivo racconto con immagini disegnate (luccicante e accattivante allora… a vederli oggi quegli anime sembrano degli analogici prodotti, scuriti e mal conservati, ma nati già un po' sfuocati, e la loro velocità supersonica si rivela una lentezza pachidermica), meglio ancora! Infatti ne eravamo felici. Ognuno aveva le sue preferenze. Di solito, alle bambine gli orfanelli, ai bambini i robot. Poi c'erano quelli come me, che guardavano volentieri tutto. A ricordarli a distanza di tempo, emerge che tutte queste serie volevano essere portatrici di valori, in certi casi rispecchiando un mondo distante dal nostro; nel trovarle piacevoli o credibili o divertenti, potremmo osservare che abbiano rappresentato, per noi che le seguivamo, la prima vera lezione di intercultura e di educazione all'integrazione.

 

Quanto ho amato le sigle! Per le sigle, mi rendo conto oggi che è successo qualcosa di incredibile. Sono stati all'epoca ingaggiati autori, cantautori, cantanti, gruppi contemporanei o di un passato allora piuttosto recente, spesso affiancati a voci di bambini, bambine, o ragazzini, ragazzine, che avrebbero fatto leva sull'immedesimazione di un pubblico giovanissimo. Sono state composte ex novo o riparolate canzoni straniere esistenti già utilizzate come sigle di altri cartoni animati (oppure per versioni non italiane dello stesso anime), con procedimenti affini a quelli attuati già da anni dalle cover italiane. L'età adulta di autori e interpreti ha spesso portato a un sound già sentito, un po' da canzone pop di fine anni '60 inizi anni '70, e non proprio all'avanguardia. Quindi trionfo della tonalità, della canzone orecchiabile, alcuni casi di musiche pseudorinascimentali (i Cavalieri del Re subirono evidentemente il fascino del recente successo di Branduardi) o baroccheggianti (2), altri di folk rock o country rock (un chiaro esempio: l'arrangiamento della sigla di Candy Candy) o di musica vagamente jazz e solo una percentuale minima di rock modale, che invece a metà anni '80 avrebbe portato interesse e aria nuova alla canzone italiana, raccogliendo e sviluppando diversamente i geniali spunti offerti in precedenza da Battisti. Non è una critica; ho amato molte di queste sigle, e da bambini non sentiamo niente "antico": è tutto nuovo (questo è meraviglioso). Avevo solo riserve, ricordo, quando le parole sembravano messe senza aver visto davvero la serie; "…a spasso col suo gatto se ne va": "quello di Candy non è un gatto! Non hanno neanche guardato le figure!" Ecco, quella era una critica negativa fatta da me bimba al testo della canzone (e al tempo potevo essere proprio intransigente).

 

Sam il ragazzo del West (cantata da Nico Fidenco e da lui scritta con Giacomo Dell'Orso): ottima sigla, ascoltata oggi, impossibile non cogliervi i "morriconismi", per come è stato ripetuto il monosillabo Sam, in modo melodicamente spaziale e ritmicamente concitato, adatto alle vicende e all'ambientazione.

 

Ho amato particolarmente Heidi: è la prima in ordine di tempo, la prima sigla di un anime, avevo 4 anni. Insieme alle musiche di due programmi che non erano degli anime, e davvero destinati ai bambini: Cappuccetto a pois (3), che mi piaceva in modo spropositato dall'inizio alla fine, e L'inquilino del piano di sotto (Rai, TV1, 1979), con Memo Remigi e Topo Gigio. Grande musicista, Remigi. E simpatico, comunicativo uomo di spettacolo, nelle sue conduzioni televisive. Un incredibile esempio di saperi musicali e performativi, per me piccolissima. Come non sottolineare la sua magistrale capacità di improvvisare realizzazioni pianistiche di brani, da solo o come accompagnatore? E le sue sonorità piene di gusto e di raffinatezza evocativa, la sua voce morbida e intonatissima (4), la sua vena compositiva, sensibile e ben riconoscibile, esemplificata da canzoni irripetibili, come "Io ti darò di più" o "Innamorati a Milano".

 

Negli stessi anni mi sono appassionata alle storie di tutti i robot volati in Rai, dell'ape Maia (prima sigla iniziale), di Remì… a 7 anni fui colpita dalla sigla di Bia. Potevo cantarla a oltranza, aggiungendo tutte le consonanti possibili e sfidando me stessa (e la sopportazione di un malcapitato) in velocità vertiginose. Poco dopo (e dalla Rai si passa a Fininvest) ho preferito le sigle di Peline, Spank, Pollon. Le prime due le amavo molto al tempo, e nel mio ricordo prevale il lato affettivo di restare legate a un'età così importante e l'essere state funzionali a introdurre i rispettivi anime: la sigla di Peline Story, destinato soprattutto alle bambine, ci poteva far sentire già grandi (5), mentre quella di Hello! Spank, in cui oggi trovo caratteristico l'uso del basso albertino (6) in un registro insolitamente medio-alto, poteva rievocare un carillon e suggerire il piccolo mondo di un cane, particolarmente umanizzato dal doppiaggio italiano, in cui, come in altri casi, la componente scherzosa risultava accentuata rispetto alla versione originale.

 

Ritengo ancora un piccolo capolavoro la sigla di C'era una volta… Pollon, per scrittura, arrangiamento, interpretazione (una giovanissima Cristina D'Avena), unione di testo e musica e aderenza al cartone animato. La leggerezza ironica della canzone lega benissimo con la caratteristica migliore dell'anime. Che ha anche qualcosa di lacrimevole (tutti lo avevano) ma resta impresso e si distingue per aver trattato la mitologia greca con un umorismo a tratti degno del Mel Brooks più ispirato. (…Forse uno dei motivi per cui mi sono iscritta al liceo classico!) E, come Pollon per la mitologia, in molti di noi suscitò un particolare interesse per la storia Lady Oscar.

Sarebbero tantissime le sigle di cui parlare, per me… Mi soffermo in particolare su quelle di Heidi, Bia e Pollon.

 

Heidi (1978) ha il testo scritto da Franco Migliacci su musica originale di Christian Bruhn (quindi la stessa della sigla della versione tedesca), voce di Elisabetta Viviani, coro delle Baba Yaga. Il singolo ebbe un grande successo. Lo jodel viene attuato con i suoni del nome della protagonista, parola "vicina" al grammelot di solito usato in tale modo di cantare (ricordo che sono stata per anni, da bambina, a fraintendere la cosa: credevo che anche il canto si chiamasse heidi e che avesse origine da quella canzone). "Heidi" viene infatti usato per ripetuti e ampi salti anche introdotti da veloci note ribattute ("Holalheidi, Holalheidi - per quattro volte - Hola Heidi, Heidi, Heidi, Heidi, ha-ho") (7), ricordando i cambi di registro del canto jodel, e nella canzone sono presenti molte delle tipiche sillabe di puro suono ("Ho-la-hi-hu!"), che sembrano anch'esse scaturire dal nome, fin dall'introduzione, che vocalizza a più voci, ricordando un coro alpino… femminile (Heidi è una bambina, non un maschio).

 

Bia, la sfida della magia (1981), singolo de I Piccoli Stregoni, in realtà Andrea Lo Vecchio e un bambino, Giovanni Marelli. Musica e parole di Andrea Lo Vecchio, arrangiamento di Rodolfo Grieco (che figura come coautore). Della canzone ho già parlato. Lo Vecchio, cantautore, autore di testi e musiche (impossibile non citare il sodalizio con Roberto Vecchioni), produttore discografico e autore televisivo, è uno dei pilastri che mi mancano di più.

 

Pollon, Pollon combinaguai (1984) è di Piero Cassano e Alessandra Valeri Manera. Brano di cui ho già parlato, e che faceva apprezzare l'intera serie. Cassano è un popolare compositore di canzoni, noto anche per aver fatto parte dei Matia Bazar. L'ironia, il tono leggero e scherzoso, con cui viene affermato un gusto dal sapore rètro in un brano Strofa Ritornello di divertita ispirazione, appartiene allo spirito del gruppo.

I Matia Bazar sono stati, negli anni '80, in bilico tra antico e moderno, tra citazione ironica e novità coraggiose, tra il gusto della melodia orecchiabile e il giocare su pochi suoni (8). Nel 1989 avevo trovato tutto sui Matia Bazar, ne conoscevo e ammiravo i numerosi, svariati sound, compresi quelli del periodo con il primo tastierista, voce (9) e coautore.

Ancora oggi, pur praticando altri repertori, credo di aver presente il modo di porsi del gruppo e della Ruggiero in particolare, per averli presi a modello in un periodo per me cruciale. Forse è anche grazie al loro esempio, di curiosa apertura e sapiente versatilità, se sono contraria alle nette distinzioni tra i generi.

 

Ilaria Barontini

(1) Munari sfugge, come artista e intellettuale, a una possibile classificazione: pittore, grafico, designer italiano ante litteram, con campi d'interesse che spaziano fino a rivolgersi al cinema, alla scrittura, alla poesia, alla didattica; ha ideato le "macchine inutili" ed è il primo grande fautore del riuso di materiali.

 

(2) Dei Cavalieri del Re, impossibile non citare Lady Oscar (1982), "antica" nell'accezione più classica, perché l'introduzione piena di progressioni e la concinnitas delle frasi musicali ricordano un brano di epoca tardobarocca o immediatamente successiva (quindi perfetta ad ambientare storicamente la serie), basta immaginarlo eseguito con altri strumenti, altri moduli d'accompagnamento, un altro testo e un'altra emissione vocale; la scelta compositiva al tempo risultava naturale, istintiva, per la somiglianza di molta musica leggera, contemporanea o di un passato recente, con repertori "colti", ormai ampiamente codificati, che, in versioni semplificate rispetto ai loro modelli (talvolta inconsapevoli), garantivano il gradimento del pubblico, e forse anche per l'influsso del prog rock e di un crossover ante litteram.

 

(3) Cappuccetto a pois, prodotto dalla TV svizzera italiana, fu trasmesso da Tele Capodistria nel 1978. Trovo conferma ai miei ricordi sul web: fu mandato in onda a partire dall'ottobre del 1978 alle ore 19.30 all'interno de L'angolino dei ragazzi. In Rai era passato sul Programma Nazionale circa 10 anni prima (di questo non ho ovviamente memoria). La mia generazione ne ebbe una ricezione "ballerina", perché Capodistria non si prendeva proprio benissimo... In compenso, però, per i fortunati come me (che avevo già dai miei nonni addirittura un "TV color", come si diceva al tempo, e pure bello grande) questa meraviglia fu fruita a colori, al contrario dei bambini di dieci anni prima, che ricevevano bene il segnale Rai ma avevano bosco, uccellini, Lupo Lupone, funghetti… pois e treccine di Cappuccetto tristemente solo in varie sfumature di grigio. Meglio i nostri colori e il video spesso malfermo, sgranato e sbrillettante! Veri artisti tutti coloro che realizzarono la serie, con pupazzi umoristici e poetici, e scritta, recitata, cantata e suonata con un livello tale che dimostra quanto erano stati considerati importanti i più piccolini… e bravissimi alla RSI (Radiotelevisione svizzera di lingua italiana): avranno tempestivamente digitalizzato, credo, perché sul web ne sono visibili tutti gli episodi con una nitidezza e una fedeltà all'originale che nel '78-'79 in Italia (e 10 anni prima) esisteva solo nei sogni dei bambini.

 

(4) Le caratteristiche vocali di Remigi sono esemplificate dal suo modo di cantare Cerchi nell'acqua (1967, di Giorgio Calabrese, Pierre Barouh, Raymond Le Senechal, Sonny Miller), interpretazione che definirei Memo-rabile.

 

(5) La canzone, di Paolo Cassella e Vito Tommaso, cantata da Georgia Lepore, non sembrava destinata ai bambini, ma era vagamente folk rock.

 

(6) La figurazione tipica del basso albertino è soffusa e sintetica, appena percettibile durante i pochi secondi di introduzione, ma mantenuta in tutta la canzone, scritta da Luigi Albertelli e Vince Tempera e cantata da I Cuccioli, secondo le scritte in videosigla, chiamati anche Aiko & Company sulle copertine dei dischi.

 

(7) Il grammelot "Jo-la-la-hi-hù!" dello jodel viene tradotto con "Holalalheidi", da pronunciare "Ho-la-la-i-dì!", che lo ricorda molto, visto che le sillabe intonano un canto a esso ispirato.

 

(8) Molti anni prima che diventasse un must, l’uso di insistere su poche "note-perno" è esemplificato dalla strofa del brano Noi, 1987 (testo di Aldo Stellita e musica di Sergio Cossu). La strofa di un altro importante brano, La prima stella della sera, 1988 (testo di Aldo Stellita e musica di Sergio Cossu e Carlo Marrale) ha quasi una corda di recita, anzi: un parlato intonato, altro procedimento molto praticato in epoche successive.

 

(9) Pur puntando sempre sulla voce di "Matia", nella prima formazione Antonella Ruggiero e Carlo "Bimbo" Marrale non erano gli unici solisti: c'erano brani in cui il quintetto era anche vocale, nei "cori" o nell'alternarsi, con Cassano, alla melodia principale, e infine un solo brano (Ancora un po' di te, 1978, di Golzi, Stellita - Cassano, Marrale e Ruggiero) cantato da Giancarlo Golzi.

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