Il ritorno alle origini è un ritorno al futuro… è accostarsi alle fonti primordiali di un'esperienza per porsi in ascolto di elementi che si rivelano essere la cifra di tutta la storia. Credo che in ogni ambito (psicologico, sociologico, culturale…) tornare alle origini è scoprire la presenza in nuce del divenire esplorando testimonianze remote ma per fortuna mai totalmente rimosse.
Finché il divenire segue il suo corso con la bussola di certezze assolute tornare alle origini non è contemplato, anzi è un'ipotesi che non riscuote neanche interesse. Quando nel pensiero filosofico, estetico e scientifico del Novecento quella bussola è scoppiata, il ritorno alle origini è stato un'urgenza in ogni campo del pensiero e della creatività. Come affermava il poeta franco-libanese Salah Stétié (che è andato in cielo lo scorso 19 maggio), l'unico punto fermo nel naufragio delle antiche certezze assolute è il punto interrogativo.
Da dove veniamo? Qual è l'origine della nostra cultura? Come è nata la musica? Le risposte sono nascoste in fonti primordiali, per cui non ci resta che indagare in profondità quelle che sono state tramandate nei secoli all'interno di comunità indigene.
Tra Otto e Novecento sono fiorite discipline come l'Antropologia culturale o l'Etnomusicologia; si sono moltiplicati studi che inizialmente, sotto l'influsso del Positivismo, manifestavano un semplice interesse per comportamenti diversi da quelli eurocolti, ma che man mano si sono rivelati essere i frutti di una fame di universalia. Da molti punti di vista il primo vero studio etnomusicologico fu un articolo di Carl Stumpf del 1886 sui canti degli Indiani Bellacoola (Lieder der Bellakula Indianer, in "Vierteljahrsschrift für Musikwissenschaft", vol. 2, pp. 405-426). I prodromi della ricerca di universalia musicali si intravedono però qualche anno dopo in Primitive Music (1893) di Richard Wallaschek, un lavoro di compilazione di dati musicali provenienti da tutto il mondo, che ipotizzava l'origine della musica dal ritmo e dalla danza più che dall'intonazione di un discorso. Nel frattempo in tutta Europa si diffondevano studi sul campo tramite registrazioni con fonografi Edison, affiancati da osservazioni analitiche, finché si formò la cosiddetta Scuola di Berlino, in cui emerse la grande figura di Curt Sachs, pioniere dell'etnomusicologia, fondatore dell'organologia moderna e storico della danza, che restò a Berlino fin quando non dovette spostarsi a Parigi e poi a New York per motivi razziali.
Esaminando le ipotesi a lui contemporanee sulle origini della musica (dall'imitazione del canto degli uccelli, dalle grida emesse per dare segnali della propria presenza, dai riti magici, dal lavoro, dalla parola), nel suo classico apparso postumo "Le sorgenti della musica" (1962) Sachs afferma che la questione delle origini non è risolvibile, o perlomeno non riconducibile a una sola risposta. "Le sorgenti della musica" però non si ferma qui, anzi da qui parte per riflettere sugli aspetti melodici, ritmici, strumentali, prepolifonici e sociali della musica primitiva. Curt Sachs sta all'etnomusicologia come Tylor o Frazer stanno all'antropologia: il suo metodo è analogo al loro modus operandi in quanto procede per individuazione di tratti caratteristici, poi estesi a determinate aree etniche per generalizzazione.
Per Sachs i grandi modelli melodici primitivi sono la "melodia a picco" e la "melodia a intervallo unico".
La prima figurazione è la più selvaggia: dopo un suono acuto fortissimo, quasi urlato, la voce bruscamente precipita verso il basso con salti o slittamenti verso un pianissimo cantato su una o due note gravi, appena udibili; poi eventualmente il tutto è ripetuto una o più volte. Si tratta di una figurazione che è intonata su sillabe prive di significato ed è definita patogenica perché nata per esprimere emozioni incontenibili di gioia o di rabbia. Questo precipitare improvviso è riscontrabile in quasi ogni parte del mondo: in tutto il suo furore, tra gli indigeni australiani; in una versione meno turbolenta, tra gli Indiani del Nord America; in veste contenuta e solenne tra gli Zuñi del Nuovo Messico.
L'altro grande modello melodico universale individuato da Sachs è la "melodia a intervallo unico" (es. do re do do re do do do do re…) in cui l'ampiezza dell'intervallo è variabile a seconda della tribù, identificandola. Sachs osserva che questo nucleo centrale, detto "struttura vuota", è comune ai canti delle civiltà più arcaiche ed è presente tra gli indigeni della California, tra gli Indiani nord-occidentali, in Brasile, in Patagonia, tra i Boscimani e altri Pigmei o pigmoidi sia in Africa che in Asia, nelle isole Salomone... Sachs osserva che questo intervallo fisso si arricchisce di note addizionali, interne o addirittura anche esterne ad esso, nel contesto di civiltà più evolute: nella recitazione vedica indiana, nel Pacifico, nei paesi islamici e nei canti popolari dell'Europa centrale (Bulgaria, Romania, Lituania…). Questo processo di arricchimento è un mutamento che assume una grande importanza musicologica.
Mutamento, non evoluzione. Questo è il concetto chiave che troviamo a più riprese nelle osservazioni finali del volume, una dissertazione (lucida e priva di nostalgia rousseauiana) che rifugge dall'idea positivistica del progresso e abbraccia finalmente il limpido concetto di mutamento. Sachs conclude che, rispetto alla musica occidentale, la musica primitiva è "certamente più povera se delineata da un punto di vista strettamente artistico ma sempre piena di significato, di dignità"; "osservare e valutare la differenza tra i due mondi musicali può aiutarci a comprendere che il nostro guadagno è al tempo stesso una perdita, che la nostra crescita è anche un declino. Può aiutarci a comprendere che non abbiamo progredito, ma siamo semplicemente cambiati (...) e non sempre in meglio".
Vorrei proporvi l'ascolto di melodie del popolo amerindio degli Zuñi (o Zuni), in questo video eseguite su un flauto nativo americano.
Spero che gustare ricchezze primordiali come queste possa ripristinare quel respiro interiore che è l'universale umano più recondito e che ci rende davvero capaci di ascoltare.
Caterina Barontini