Che la Musikwissenschaft (musicologia), comparsa nel corso dell’Ottocento, avrebbe iniziato a illuminare il caleidoscopio dei significati e delle valenze culturali della musica era già stato intuito nell’entusiasmo dei primi studiosi e compreso nella lucida, cartesiana distinzione di fine secolo di Guido Adler tra musicologia sistematica, storica e comparata (o etnomusicologia). Ciò che era, ed è, ancora ignoto e imprevedibile è l’immensità degli apporti di queste branche di studio, che nel corso del Novecento sono state viste come sempre più interconnesse, e che procedono in equilibrio tra approccio scientifico e orizzonte umanistico, con metodi ricavati da altri ambiti (come la semiologia, l’antropologia e l’etnologia). La ricerca musicologica intende dare, anzi, riconoscere una forma all’universo che sostanzia la musica, per andare a fondo di ogni aspetto linguistico, culturale e storico-filosofico, che nell'ascolto ha spesso una rilevanza sottintesa e misteriosa, fusa insieme a tutto ciò che nella musica bella e vera è presente come un quid spirituale, insondabile e inesprimibile.
Considerando il periodo che va dalla seconda metà dell’Ottocento alla metà del Novecento, è interessante notare che il proliferare degli studi intorno alla musica sia stato parallelo al postromanticismo, alla nascita della musica moderna e poi alla comparsa delle avanguardie: da un lato fiorivano ricerche per comprendere la realtà della musica, dall’altro la ricerca compositiva si faceva sempre più intensa per dare voce alla musica della realtà. Tutto questo mentre la storia dell'umanità stava preparando, e poi vivendo, un capitolo tra i più assurdi e atroci, quello delle due guerre mondiali e dei totalitarismi. Sia lo studio, sia la creazione artistica si sentivano più che mai chiamate a sviscerare il presente e a interrogarlo sul destino e sull'essere. La tensione compositiva è andata crescendo: nel postromanticismo sussisteva tra le voci interne, come sottolinea Massimo Mila, fino a far esplodere il sistema tonale; nella sensibilità debussyana e del primo Novecento francese si manifestava nel rapporto tra nota scritta ed effetto sonoro, e tra questo e il silenzio (con la poetica delle nuances e del presque rien), in un sistema ibrido tra tonalità e modalità, e talvolta politonale; nell'espressionismo atonale e dodecafonico, vibrava in un dinamismo al confine tra suono e rumore, orfano di un'attrazione gravitazionale verso un suono-tonica, un suono-casa. Questa tensione creativa riflette quella esistenziale dell'artista che vuole spaccare in due il presente, per aprire interrogativi esistenziali profondi come una voragine, all'indomani di pagine disumane della storia.
È ciò che Bruno Maderna (Venezia 1920 - Darmstadt 1973) ha portato nella storia della musica, da caposcuola dell'avanguardia europea del secondo dopoguerra, introducendo in Italia l'espressionismo con una sua visione delle potenzialità espressive della dodecafonia di Luigi Dallapiccola, in seguito unita all'attrazione per le sperimentazioni elettroniche. Queste ultime vedono il loro avvento nella produzione di Maderna nel 1956 con Notturno per nastro magnetico; l'anno dopo, Musica su due dimensioni per flauto e nastro magnetico celebra un'inedita unione di strumento tradizionale e suoni elettronici, che precede di circa un anno le sperimentazioni di autori europei di area tedesca come Stockhausen e Kagel e che resta un unicum tra i brani di Maderna. In seguito, la celebre Serenata per un satellite (1969) costituirà la sua adesione alla musica aleatoria, secondo la teoria dell'alea controllata di Pierre Boulez. Il brano fu scritto in occasione del lancio di un satellite europeo da un'isola del Pacifico per osservare i fenomeni connessi alle aurore boreali.
Credo che i brani di Maderna di metà Novecento siano quelli meno noti e più densi di significati universali al di là di ogni tendenza sperimentale; sono composizioni che per questo si rivelano chiamate ad essere rivalutate e ascoltate anche oggi, alla luce delle prospettive attuali della musica.
Ho scelto Composizione n. 2 per orchestra (1950) perché nonostante il titolo poco attraente e poco esplicito mi è sembrata un capolavoro assoluto: l'opera si apre con l'esposizione, affidata all'oboe, della melodia greca nota come Epitaffio di Sicilo, risalente forse al I secolo a.C., la canzone più antica mai ritrovata nella sua interezza. È profondamente significativo che l'attenzione di Maderna, così calamitata dal nuovo e dall'inaudito, si sia rivolta a ciò che di più antico abbiamo della storia della musica, radicandosi nell'universo culturale che per primo ha messo una accanto all'altra la vita e la morte. In Composizione n. 2 un canto funebre si erge a simbolo della riflessione umana di fronte alla morte e contemporaneamente è la fonte da cui scaturisce tutto il brano. La prima parte è una meditazione che rielabora la melodia greca con continue citazioni variate e trasposte che sembrano evocare ciò che accade nella nostra mente quando ci troviamo in uno stato febbricitante. Da questa scrittura compositiva emerge una rappresentazione emblematica dell'impotenza umana davanti al mistero della morte, un mistero affascinante e terribile. La seconda parte del brano (a 6:49) è una reazione sempre più animata davanti a questo mistero, assimilabile alle danze rituali dionisiache dei lamenti funebri (threnoi); a 10:07 i passi felpati degli strumenti a fiato ripartono gradatamente verso una nuova sezione concitata dell'intera orchestra, fino all'acmé a 12:50; a 13:05 un'inaspettata sezione ritmica, che sembra rievocare una danza primordiale, chiude la composizione in un amalgama sonoro pieno di fascino. Il messaggio del compositore sembra essere: l'unica certezza nel naufragio del sistema tonale è il ritmo, come per significare che nel naufragio delle verità assolute l'unico imperativo è danzare per arrivare ad accogliere il mistero della morte.
Caterina Barontini