Quanto debba la canzone italiana degli anni settanta (e non solo) alla musica barocca è evidente: uso del sistema tonale, delle progressioni, della melodia accompagnata. E viene comprovato da imprestiti e rielaborazioni, anche animate dallo spirito che in seguito avremmo chiamato fusion e all’epoca sintetizzato con la definizione rock progressive; un esempio: Bourée (1969) dei Jethro Tull, arrangiamento di Ian Anderson del quinto movimento, Bourrée, dalla Suite in mi minore per liuto BWV 996 di Bach.
Tornando in Italia, a partire dagli anni settanta del Novecento, il Concerto in re minore del compositore veneziano Alessandro Marcello per oboe, archi e continuo, noto già nel periodo barocco e trascritto per clavicembalo da Bach (BWV 974), è stato fatto rivivere e conoscere al pubblico per delle significative operazioni, sul grande e piccolo schermo. Del celebre concerto è infatti ancora popolare il secondo movimento, un Adagio di intensa, misurata espressività, cui il cinema ha più volte ricorso tra gli anni settanta e il terzo millennio. È divenuto perfino una canzone, portata a Canzonissima nel 1971 come “Adagio veneziano di Benedetto Marcello” (così venne presentata) da Massimo Ranieri. Titolo e autore vengono annunciati da Ranieri stesso, dimostrando come al tempo fossero forti i dubbi sull'attribuzione. Nella colonna sonora del film Anonimo veneziano (1970) esso è diegetico ed arriva a esprimere ciò che non riescono ad esprimere le parole, le decisioni, le vite dei due ex (?) innamorati e l'avvicinarsi della morte per il protagonista. Collocato nel finale, drammatico, tormentato e ineluttabile, rappresenta la registrazione musicale dell'uomo che lascia questa traccia di sé consapevole del suo tragico destino. “Di Anonimo veneziano...” è l'annuncio vocale che precede i take. “Adagio”... una musica struggente in cui si può leggere il dramma. Ma anche la volontà di dilatare (ad agio) il tempo rimasto. Che è breve comunque. Il tempo limitato della vita. Un invito ad andare lenti, a vivere uscendo dal tempo, a ricordare, ad aggrapparsi a ciò che in ogni singola vita (perché in ogni singola vita c'è) abbia o abbia avuto senso. Nel film, tutta la musica sottolinea e amplifica una sceneggiatura che mira all’introspezione e un dialogo in cui è importante soprattutto ciò che resta sottinteso e apparentemente inespresso. E quando, alla fine, si arriva all'Adagio barocco, non solo colonna sonora, ma trama, soggetto esso stesso e non più musica appena composta ma che attraversava i secoli senza passare di moda... quando lui con l'oboe, e la consapevolezza della vita e della morte, attacca il brano, ci si può commuovere. Non serve un'analisi tecnica per cogliere l'essenziale: sentire la finitezza dell'esistenza e lasciare che il potere dell'arte dia inizio a una catarsi di memoria greco-antica. Anche da consumati conoscitori, amatori del cinema e della musica si può essere affascinati dalla bellezza della musica di Cipriani e, sul finale, di Marcello, e dalla personalità e recitazione dei due interpreti, pur sorridendo di un gusto vintage o del mancato sincrono e di una postura un po' improvvisata per un oboista. E poi viene in mente un verso (un vero e proprio “adagio”!) di Vasco (Rossi), moderna voce poetica di fine Novecento e di oggi (reso noto al grande pubblico proprio da Sanremo): “... e alla fine non si piange neanche più.”
Il brano cantato da Ranieri rappresenta un equilibrio felice tra esigenza di tornare a un passato musicale glorioso e voglia di rileggerlo in chiave moderna. Il canto ricalca in gran parte l'oboe, ma se ne discosta per esigenze interpretative e di sillabazione. L'operazione ricorda quella di Fabrizio De André con un altro celebre secondo movimento, l'Adagio del Concerto in re maggiore per tromba, archi e continuo TWV 51:D7 di Georg Philipp Telemann.[1]
Nei titoli di coda di Canzonissima '71, questi gli autori di “Adagio veneziano”: Marcello, Pourcel, Harvel, Gray, Bigazzi. L'ultimo, Giancarlo Bigazzi, non ha bisogno di presentazioni. Il Maestro Franck Pourcel è un eccellente direttore d'orchestra e arrangiatore che nel 1972 sarebbe stato apprezzato dal pubblico italiano (e anche da quello attuale, specie tra gli appassionati di storia della canzone) per aver fatto riascoltare “i motivi” (così veniva chiamata la musica liberata dal testo) delle canzoni durante il ventiduesimo Festival di Sanremo, svolto dal 24 al 26 febbraio al Salone delle feste del Casinò. Quello fu il primo anno in cui si modificava un aspetto costitutivo del Festival: con l'eccezione del 1956 erano sempre state previste due interpretazioni per ogni canzone, mentre dal 1972 (salvo il 1990 e '91) una sola interpretazione. Si ritenne quindi opportuno far riascoltare ogni brano con una versione per orchestra con la collaborazione del “coro”. Durante questa esecuzione, si inquadrava talvolta l'interprete (cantante o gruppo), oltre a provvedere ad una scritta in sovrimpressione (interprete e canzone). Un'idea che rivela come fosse percepita importante la musica all'epoca; ricordare una canzone era ricordarne la musica, non solo il testo.
Nel Sanremo 1968, un tripudio: doppio interprete e il grande Lionel Hampton a far riascoltare “i motivi”. Due presentatori particolarmente festosi e sorridenti, a tratti sontuosi, quell'anno: l'efficiente Luisa Rivelli e il giovane ma già autoreferenziale Pippo Baudo. Entrambi si dimostrarono desiderosi di far dimenticare la tragedia dell'anno precedente (il suicidio del giovane, indimenticabile Luigi Tenco), anno in cui tutti i presenti, materialmente o come spettatori radio/televisivi, avvertirono che il Festival non sarebbe più stato lo stesso. Dei primi anni si ricorda Nunzio Filogamo e il suo “Miei cari amici vicini e lontani”, una simpatica, subito familiare, captatio benevolentiae. Nel '60 Enza Sampò e Paolo Ferrari... le numerose conduzioni di Mike Bongiorno, nel '65 affiancato da Grazia Maria Spina.
Tutti i Festival degli anni sessanta sono già altro dalle origini: sono diventati sempre più, fin dall'arrivo della televisione, “festival dei cantanti” e non delle canzoni. Nell'edizione del '68 si percepisce che è anche il “festival dei conduttori”, che scientemente catalizzano sempre più l’attenzione del pubblico. Quell'anno Sanremo segnò senza dubbio molti record e presenze internazionali di grande rilievo. Ma l'ansia autocelebrativa di Baudo è evidente. Sotto questo aspetto negli anni seguenti le conduzioni corressero il tiro. Ad esempio, nel 1970 il misurato Nuccio Costa è affiancato da Enrico Maria Salerno che, tra il serio (ma non troppo) e l'ironico (ma non troppo), sembra quasi chiedere scusa al pubblico, per il gran numero di canzoni che doveva sorbirsi... Un'indiscutibile eleganza viene aggiunta dalla coconduttrice Ira von Fürstenberg. Dunque nel '70 ci si era rivolti ad un attore di repertori molto vasti, fino al teatro di spessore e a ruoli di forte critica sociale per presentare Sanremo, idea innovativa. Sono anni che portano con loro l'imminente, inevitabile declino di un evento arrivato al periodo d'oro[2], e dunque affezionato alle sue formule consolidate[3], ma anche novità. Nel 1972 nella conduzione Sanremo apre ad un comico, Paolo Villaggio, che affianca Mike Bongiorno e Sylva Koscina. L'ironia si insinua come un divertente controcanto nella presentazione, che risulta più moderna e scanzonata. Quell'affanno che aveva animato il Baudo '68 (e forse Baudo tout court) nel voler dimostrare che il suo è il migliore dei Festival possibili sembrerebbe archiviato. Da Villaggio, che ha insegnato che si può ridere al/del Festival, prenderanno le mosse il Benigni del 1980, Chiambretti, le inquadrature irriverenti di spettatori in sala nei Festival condotti da Fazio molti anni dopo, Antonella Clerici autoironica nei vestiti troppo ampi e ricchi, tutti i comici presenti nelle successive edizioni, il concept stesso che oltre a canzoni e presentazioni ci vogliano dei comici o anche solo degli attori... meglio se attori, all'occorrenza, in grado di divertire. Poi verrà in mente che non possa un festival della canzone essere sganciato dai drammi quotidiani o di cronaca (e da personalità come Dulbecco, copresentatore, o il presidente della Repubblica Mattarella, presente su un palco dell’Ariston ad applaudire Benigni e il suo monologo sulla Costituzione italiana – di cui ricorrevano 75 anni –, il 7 febbraio 2023, ricordando un po' Pertini ai mondiali di calcio del 1982). Perché un evento nazionale non sia solo d'evasione.
Il primo ospite fu nel 1970: Nino Manfredi. Altro topos che si creò: l'ospite deve cantare e/o far ridere.
Dal 1977, altra data storica perché fu il primo Sanremo a colori, per gli italiani che avevano comprato il TV color, nasce quella che sembra diventare un'esigenza fissa: il cantante straniero ospite. Anzi, anche più d’uno. Come a dire: non c'è più la doppia interpretazione, molti di questi “secondi” interpreti erano stranieri, dunque noi ora chiamiamo ospiti stranieri a cantare - ahinoi per lo più in playback - e il gioco è fatto. Tra le esecuzioni dal vivo dei cantanti stranieri, negli anni ottanta è memorabile un'inimitabile interpretazione pop soul (oggi diremmo contemporary R&B) di Whitney Houston e in epoche molto successive quelle di un giovanissimo Mika, in grado, nella sua Grace Kelly, di virtuosismi agilissimi ed intonatissimi mentre il corpo si muove con agilità paragonabile a quella di Mick Jagger, e di un espressivo Avidan, che esegue One Day in un modo diverso da quello delle incisioni reperibili (solo voce e pianoforte, con intensità struggente, dalla sommessa preghiera laica, introspettiva, fino al grido disperato, insistente, straziante) per citarne solo alcune.
Oggi non ha più molto senso parlare della tipica canzone “sanremese” - cfr. nota [3] -. Questo lo dobbiamo alle ultime edizioni del Festival, quelle di Morandi, Baglioni e soprattutto di Amadeus (che come Mike proveniva dai quiz), che ha fortemente voluto tutti i tipi di canzoni pop attuali, in rappresentanza di tutte le fasce di età e di tutti i gusti. Intere famiglie sono tornate a guardare il Festival, e chi non poteva far tardi ha recuperato almeno i propri cantanti o momenti preferiti. Sanremo è diventato un particolare pranzo di nozze, in cui decidere se non saltar niente, da antipasto a dolce, o scegliersi solo alcuni piatti, alla carta (on demand), e di cui poter parlare in modo talmente critico da tradire una spiccata reattività.
Gli anni di Baudo (ottanta, novanta) sono serviti a rilanciare il Festival come appuntamento televisivo. A mettere ordine a gironi, categorie ecc. degli anni passati (sempre mutevoli e talvolta complessi), pensò sempre Baudo, inventando i Big (o Campioni) e le Nuove Proposte Italiane, poi divenuti Giovani, dove trovarono spazio talenti come Mango, Laura Pausini e, in seguito, Negramaro, Diodato, Mahmood ecc., accanto a meteore e/o bluff. Dagli anni ottanta venne riportato il live obbligatorio, dapprima su base preregistrata (1986, edizione condotta da Loretta Goggi) e poi con l'orchestra (1990, con Johnny Dorelli e Gabriella Carlucci). Non è l'orchestra d'una volta, è stato detto. Meno male; che nulla sia quello “di una volta”! Ricordiamo quanto fu liberatorio il grido cantato “Volare oh oh”, con il gesto ampio, teatrale, da esso indissolubile? Oggi se arrivasse qualcuno a ripeterlo tale e quale sarebbe solo un ricalco. Ben venga la tecnologia a supporto dell'orchestra, l'autotune e chissà cos'altro. Ben vengano i talent, se da essi escono Marco Mengoni, Måneskin, Angelina Mango...
Sanremo può rappresentare tutta la musica leggera. E siccome il contesto storico si avverte in qualsiasi manifestazione, forse si potrebbe non appesantire con così tante digressioni sull'attualità e su varie problematiche della vita contemporanea per rendere meno “leggero” lo spettacolo. Del resto è un Festival della canzone... Si apprezza come sia stata colta la lezione del Controfestival organizzato da Dario Fo nel 1969, e della sua Canzonissima del lontano 1962, incorsa nella censura al punto di essere chiusa in tronco. Fo provava a fare spettacolo, satira e canzone rivendicando il diritto a pensare. Oggi forse questo è acquisito, e il senso di colpa della Rai nei confronti del grande attore e drammaturgo, maturato in oltre sessant’anni, potrebbe esser superato in favore di uno spettacolo che sia intelligente ma non predicatorio. Fiorello accanto ad Amadeus ha rappresentato che questa direzione è praticabile.
Un’altra acquisizione: non ha senso la canzone da sola. Niente ha senso, se non interagisce con un contesto. Forse l’incursione in musiche altre potrebbe ridare centralità alla canzone.
Diverse incursioni ci sono state: apertura ai nuovi sound americani negli anni cinquanta, e in seguito al rock, al folk, alla popular music internazionale, alle colonne sonore... Potrebbero essercene altre, ancor più coraggiose. Invece non si dovrebbe cadere nell'ansia di compiacere, di dimostrare. Nessuno dovrebbe.
Le persone hanno tutte qualcosa da dire. Talvolta hanno anche qualcosa di artistico. Il mercato (e non solo quello...) può condizionare le scelte, rovinare la vita, non considerare l'arte, purtoppo. Ma sia ciò che si cerca e non si trova, sia ciò che non si riconosce e a cui chiudiamo la porta, possono entrare, inaspettati, dalla finestra. Apriamole, le finestre... “al nuovo sole, è primavera” (1956). Meno topoi, più nuovo[4]. Perché non si debba dire “è brutto e anche già visto”. Meglio un “brutto nuovo”… Poi c'è il “tradizionale e bello”, il “classico reinventato” (una personale interpretazione di una canzone napoletana, Tanto pe' canta' di Manfredi, Dove sta Zazà di Gabriella Ferri, Adagio veneziano di Ranieri...) e il “bello e nuovo”. Che può essere dappertutto, perfino nella musica “leggera”, perfino a Sanremo.
Ilaria Barontini
[1] Si tratta de La canzone dell'amore perduto. In questo caso, però, De André non dichiarò la provenienza del materiale musicale da lui utilizzato. Inoltre, nel rendere per voce la linea della tromba, la modificò ritmicamente, tanto che la nuova versione e quella di Telemann non sono sovrapponibili. Infine, operò su alcune frasi musicali dei tagli così efficaci che, pur nella bellezza dell'opera originale, tali frasi possono risultare, per chi conosca entrambi i brani, addirittura pleonastiche.
[2] Verso gli anni ottanta, inizia una lenta, inesorabile ripresa, con momenti innovativi (già nel '78 Rino Gaetano e Anna Oxa, poi i Decibel, Vasco Rossi...) e altri nostalgici (Orietta Berti, Sergio Endrigo di Canzone italiana, 1986...), momenti trash volutamente (come i Bad Manners), e non (come l'ultima partecipazione di Claudio Villa...), non si sa se voluti o no (come Italia, 1988, di Reitano) e altri sublimi (Eduardo De Crescenzo, 1980 e '87, Mango, Mia Martini, Ray Charles nel 1990), messaggi drammatici (L'amore rubato di Barbarossa, Signor tenente di Faletti…), velati di ironia (Vacanze romane e Souvenir dei Matia Bazar, rispettivamente su un'epoca d'oro, sfarzosa e sregolata, e su un amore lontani; della prima resta una melodia suadente, vintage, ad evocarne l'atmosfera, i profumi... dell'amore il ricordo indelebile di “un attimo nel vento”) o tutt'e due le cose (Se me lo dicevi prima di Jannacci, la nostra stralunata, originalissima Sunday Morning: enumera tutto ciò che “sarà ancora bello”, se si esce da una dipendenza, e termina con “quando senti il sole.” Il testo non è esplicito e questo, complice anche la teatralità di Jannacci, contribuisce a rendere il brano particolarmente poetico, emozionante).
[3] Si tratta soprattutto di scarsa fiducia nei confronti di musiche diverse da quelle codificate e abitualmente ascoltate a Sanremo. Mentre si avvicina l'epoca delle radio libere e mentre perfino la Radio Rai crea palinsesti che comprendono musiche black, disco e frutto di contaminazioni, sul palco del Festival c'è confusione: grandi interpreti con un passato recente già glorioso come Milva, che donano ai brani una bellezza autentica, fuori dal tempo (talvolta non compresa appieno), e nuovi cantanti sconosciuti che possono avere belle voci e canzoni anche efficaci ma che poco aggiungono e nulla sperimentano, e che tendono a restare legate al momento in cui sono sorte. Questo porterà negli anni ottanta certa stampa a definire “sanremesi” molti brani con caratteristiche simili, termine ancora usato per indicare canzoni di facile presa ma non “impegnate”, altra etichetta usata con accezione positiva dopo il '68. Il disimpegno degli anni ottanta non riuscì a debellarla. Forse oggi l'etichetta “impegnata” riferita alla canzone si può considerare in disuso. Da cultori della musica ci si poteva risentire del fatto che bastasse un testo di spessore a rendere (per certa critica “specializzata” e per cospicue fette di pubblico) alta, autorale e autorevole qualunque musica evidentemente insipida o a tratti dilettantesca. Di canzoni con caratteristiche simili sarebbe stato onesto riconoscere i pregi testuali, storici, antropologici, sociali, e le eventuali doti non strettamente musicali degli interpreti. Confidiamo nella prospettiva storica, che, unita a un'auspicabile maggior competenza musicale generale, possa garantire distacco e favorire oggettività.
[4] Sanremo, la conservativa manifestazione canora, ha messo in pratica anche questo: cantanti a presentare (Baglioni, Morandi) o a cocondurre (Arisa, e, prima, addirittura Pavarotti), attori comici a partecipare come cantanti (Francesco Nuti, 1988; Giorgio Faletti, 1994, con la già citata Signor tenente, in grandissima parte declamata e, a sorpresa, drammatica).